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Tecniche e Obiettivi: il cuore del Progetto Terapeutico

In psicoterapia, le tecniche rappresentano gli strumenti operativi del terapeuta, i mezzi attraverso i quali egli tenta di produrre un cambiamento. Tuttavia, come ogni strumento, una tecnica è efficace solo se usata al momento giusto, per lo scopo giusto e con la persona giusta.

Per questo motivo, non si dovrebbero mai usare le tecniche prima di una buona valutazione e della definizione degli obiettivi. Senza una comprensione chiara del funzionamento del paziente, della sua storia, delle sue risorse e delle sue difficoltà, si rischia di intervenire in modo casuale, guidati più dal repertorio personale del terapeuta che dai reali bisogni della persona.

Una valutazione accurata permette invece di costruire un progetto terapeutico coerente: di capire dove si vuole andaree perché. Solo a partire da questa chiarezza è possibile scegliere come arrivarci, cioè quali tecniche applicare.

Più gli obiettivi sono chiari e specifici, più è facile individuare le tecniche adeguate. Quando si sa che cosa si vuole ottenere — ad esempio favorire l’espressione emotiva, aumentare la consapevolezza corporea, rinforzare la regolazione cognitiva o migliorare la qualità relazionale — il ventaglio delle tecniche possibili si restringe e si orienta naturalmente. Che è poi il risultato atteso che ci immaginiamo utilizzando la tecnica. È la logica dei problemi–obiettivi–tecniche d’intervento: un modo di pensare che rende il lavoro più preciso, intenzionale ed efficace.

Alcune volte è utile definire al paziente che si userà una specifica tecnica, sia per prepararlo sia per addestrarlo ad un utilizzo che diventi poi autonomo, o per chiedere il suo consenso in caso ve ne sia la necessità. Altre volte, ma dipende dalla bravura del terapeuta e dal grado di sintonia col paziente, le tecniche si utilizzano in modo sfumato e continuativo, durante l’incedere della seduta. Si innestano cioè senza soluzione di continuità col dialogo in corso, divenendo quasi un atteggiamento del terapeuta.

Infine, anche quando la tecnica è stata scelta con cura, il lavoro del terapeuta non è concluso. Ogni intervento deve essere accompagnato dall’atteggiamento dell’esploratore o del ricercatore, che osserva con attenzione se quella tecnica, in quella relazione e con quel paziente, funziona davvero o meno.

La psicoterapia non è un’applicazione meccanica di strumenti, ma un processo di ricerca continua: ogni seduta è un piccolo esperimento clinico in cui il terapeuta formula ipotesi, agisce, osserva gli effetti e, se necessario, modifica la rotta.

Così le tecniche diventano strumenti di pensiero, non solo di azione: servono non per applicare protocolli, ma per comprendere più a fondo il paziente e accompagnarlo nel suo percorso di cambiamento.
In fondo, la buona tecnica è quella che si adatta al progetto, e il buon progetto è quello che sa evolvere grazie alle tecniche che si mettono alla prova.

L’efficacia della psicoterapia

Le ricerche sull’efficacia della psicoterapia sono oggi numerose e concordano su un punto: la psicoterapia funziona. I dati mostrano che, in media, una persona che intraprende una terapia sta meglio del 75-80% delle persone che non ricevono alcun trattamento. Inoltre nei disturbi in cui è indicato anche l’uso di farmaci — come ad esempio nella depressione maggiore o nei disturbi d’ansia più gravi — gli studi confermano che la combinazione di psicoterapia e trattamento farmacologico produce risultati migliori e più stabili nel tempo rispetto ai soli farmaci. In molti casi, la terapia aiuta anche a ridurre le ricadute e a favorire una gestione più consapevole dei sintomi.

Da molti anni la ricerca scientifica cerca di rispondere a una domanda cruciale: che cosa rende efficace una psicoterapia? Gli studi condotti da autori come Michael Lambert e John Norcross hanno mostrato che il successo di un trattamento non dipende solo dal modello teorico o dalle tecniche impiegate né solo dalla “bravura” del terapeuta, ma da una combinazione di fattori comuni che attraversano tutti gli approcci. Tra questi, i principali sono:

  • Alcune caratteristiche del cliente, come la motivazione, le risorse personali, la rete di sostegno e le condizioni di vita, la capacità di essere resiliente;
  • La relazione terapeutica, intesa come fiducia, empatia, buona comunicazione e collaborazione reciproca;
  • L’esperienza del terapeuta e la padronanza delle tecniche e del proprio modello teorico, che forniscono coerenza e strumenti operativi;
  • Le aspettative e la speranza di cambiamento, che sostengono la motivazione ed il perseguimento degli obiettivi;
  • Gli eventi esterni alla terapia, che possono interferire o favorire il processo di crescita.

Questa visione fondata sui fattori comuni alle terapie “che funzionano” ha rivoluzionato il modo di intendere la psicoterapia. Da qui nasce l’idea di una terapia ‘più precisa’ (Precision Therapy), un’evoluzione che punta a costruire percorsi realmente personalizzati ed efficaci: la terapia viene adattata alla persona, non la persona al modello, in funzione dei fattori realmente efficaci sopraelencati.

La “terapia di precisione” invita il clinico a monitorare continuamente l’andamento del percorso, valutare l’efficacia delle proprie scelte e modificare la direzione quando necessario. È un approccio dinamico che integra intuizione, esperienza clinica e dati osservabili per massimizzare l’impatto del trattamento.

Un buon terapeuta, in quest’ottica, non si limita a seguire un protocollo ma, anche attraverso la tecnica, coltiva una relazione viva, osserva, misura, riflette e aggiusta il percorso, proprio come un artigiano che affina continuamente il proprio lavoro.

Infine, al di là dei proclami e di alcuni studi non pienamente validi sul piano delle conclusioni, la ricerca è chiara: non esiste un modello superiore agli altri, né una corrispondenza certa tra una categoria di sintomi e uno specifico approccio terapeutico. Ciò che conta davvero, se si vuole ragionare su ciò che viene dal modello di riferimento, senza del quale ovviamente non si potrebbe neanche lavorare, è l’esperienza del professionista nell’utilizzarlo con competenza e flessibilità, agendo con consapevolezza sui fattori che la scienza ha dimostrato essere realmente efficaci.

Le domande guida che possono accompagnare il terapeuta, formato ed esperto nel suo modello, mentre segue il suo progetto terapeutico, se vuole divenire più efficace, sono le seguenti:

  • come migliorare la qualità della relazione terapeutica, l’empatia e la comunicazione?
  • come sostenere la motivazione del paziente? come proteggerla dagli urti e dai fallimenti?
  • come spronarlo alla resilienza? da quali esperienze e capacità cominciare?
  • come utilizzare al meglio le sue risorse personali? come reperirne altre, se serve?
  • come sostenere le sue aspettative sulla terapia e sulla guarigione, o come spronarlo a modificarle, se inadeguate?
  • come aumentare il bagaglio delle mie esperienze e conoscenze di terapeuta? sia in generale sia rispetto ai problemi e sintomi che il paziente mi porta?

Il Progetto Terapeutico

Può aiutare avere un’idea di cosa si muove dietro le quinte di un trattamento psicologico, dietro ciò che fa o non fa lo psicologo quando lavora per aiutare il suo paziente. Il progetto terapeutico è quella sorta di intelligenza silenziosa che il paziente non vede ma permette allo psicologo di procedere, che guida i passi da seguire durante il trattamento.

Non è possibile non avere un progetto. Anche quando improvvisiamo, in realtà seguiamo spontaneamente uno schema implicito, una traccia interna che orienta il nostro modo di ascoltare, di intervenire, di reagire. Ma abbiamo meno controllo, meno efficacia. Proprio per questo è utile che il professionista lavori invece consapevolmente al progetto terapeutico, per ridefinirlo nel tempo e renderlo più preciso, efficace e coerente con l’evoluzione del paziente e della relazione.

Un buon progetto nasce da una valutazione accurata: la conoscenza delle caratteristiche del paziente, del suo contesto di vita, della storia personale, delle risorse disponibili e dei limiti attuali. È importante individuare il livello di gravità strutturale, la quantità e severità dei sintomi, nonché le capacità adattive e relazionali. In base a questa analisi si può collocare il caso specifico all’interno di una tipologia di riferimento, prevista dal proprio modello teorico, che funge da mappa iniziale per orientarsi.

Questo “appaiamento” tra persona e prototipo clinico permette di delineare una prima bozza di progetto terapeutico, che poi va raffinata tornando alla singolarità del paziente: nessun individuo coincide pienamente con un modello, ma il modello può aiutare a leggere e comprendere meglio l’individuo.

Il modello di riferimento è dunque necessario come filtro e guida: aiuta a formulare ipotesi, definire obiettivi realistici, prevedere la possibile sequenza delle fasi del trattamento, scegliere le tecniche più indicate e adottare un atteggiamento terapeutico coerente.

Ma un progetto, per quanto ben formulato, resta materia viva e in trasformazione. È buona prassi rivederlo periodicamente, verificarne la coerenza con ciò che accade in seduta, adattarlo ai cambiamenti del paziente e agli imprevisti del processo terapeutico. Un buon progetto non è mai rigido ma flessibile, come deve esserlo anche il terapeuta: dotato di uno schema elastico e capiente, capace di contenere e orientare senza irrigidire.

cartella clinicaInfine una buona cartella clinica , altra tipica attrezzatura dietro le quinte del trattamento, non è solo un archivio di informazioni, ma uno strumento di pensiero. Annotare, riflettere, aggiornare le ipotesi e i passaggi del percorso aiuta il terapeuta a mantenere chiarezza e continuità, e a costruire un progetto terapeutico coerente, dinamico e realmente adeguato alla persona che ha di fronte. Che siano appunti sparsi o schedario organizzato, annotare, riflettere, conservare, riguardare, modificare, sono operazioni silenziose e continue che un buon professionista compie continuamente e che aiutano a ridefinire il progetto globale d’intervento.

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Il cambiamento e le sue forme 

  Una persona può realmente cambiare? E può cambiare le condizioni attorno a sé, soprattutto quelle avverse? Molte persone che si rivolgono allo psicologo si pongono tale domanda. Capita in tutti gli ambiti applicativi della psicologia: nella clinica, nell’educazione, nello sport, in ambito giuridico, nella riabilitazione, nel contesto del lavoro e così via.

  Che si lavori su aspetti periferici della personalità, come l’acquisizione di nuove competenze, o che si tenti di cambiare aspetti strutturanti e di vecchia data di sé stessi, come atteggiamenti, modi di pensare e abitudini, che si lavori sulla singola persona, sulla coppia, sulla famiglia, sui gruppi o che si supervisioni un collega in difficoltà, la domanda resta e deve restare, perché è la domanda che alimenta la ricerca. Bisogna focalizzarlo bene: il rapporto che sappiamo intrattenere con la domanda e con la ricerca è ciò che predispone in realtà a trovare la risposta. Può sembrare un po’ sibillino, ma adesso sarò più chiaro.

Alcuni frammenti di vite vissute

Io posso cambiare? Ho trent’anni, ho quarant’anni… e non riesco ad allontanarmi da casa, io posso cambiare? Io invece non controllo la mia rabbia, appena ventenne ed ho già perso la fidanzata ed anche il lavoro per questo… io posso cambiare? Ed io, che non me ne accorgo nemmeno di quanto sono impulsiva, io posso cambiare? E quel cibo che non riesco nemmeno a guardare, può cambiare per me? Ed io pure, io che da poco sto capendo quanto di quello che accade a mio figlio dipenda dai miei cattivi atteggiamenti, io posso cambiare? e se cambio io, mio figlio starà meglio? E noi, noi che lavoriamo nella scuola, noi che lavoriamo nella terapia con bimbi piccoli, noi che affianchiamo i disabili, noi possiamo cambiare nonostante la scuola ed i centri sanitari restino gli stessi e ci impediscano di lavorare al meglio? i nostri assistiti staranno meglio anche se le loro famiglie non collaborano quanto dovrebbero? Ed io che abito da assente un corpo vuoto, io posso cominciare a sentire qualcosa? La gioia, forse? Ed io che ho raggiunto tutto eppure non trovo mai pace, io potrò acquietarmi un giorno?

L’importanza di tali domande

Solo il pronunciare queste domande mette angoscia, irrompe la paura ed un misto di irrequietezza e di senso di impossibilità. Il dubbio inoltre, se non sciolto, logora e può cedere il passo allo scoraggiamento. Certo la stessa domanda assume significati diversi a seconda della situazione e della storia della persona che vi ci piomba dentro, ed inoltre il carattere di ciascuno dà un taglio del tutto particolare alla questione. Ed anche io che aiuto ciascuno a “costruire” la sua risposta, certo non ritengo sia l’unica possibile al quesito ed alla sofferenza che dietro di esso si para. Ma nonostante tutti i “se” ed i “ma”, le persone si chiedono questo ed hanno profonda ragione di farlo. Nessuna domanda è inutile, non tutte le domande però sono ugualmente importanti, questa decisamente lo è. E non solo perché vi riponiamo dentro le nostre speranze, le nostre paure, i nostri dolori, le nostre energie emotive ed economiche. Certe domande solo per averle poste generano un orizzonte di senso nel quale poi bisogna imparare a muoversi.

Una riflessione, ben più che una risposta

Io ritengo che il cambiamento sia non solo possibile ma addirittura ineluttabile. Sempre. Ciò che varia è la natura di esso, la sua direzione e la sua quantità ma esso, il cambiamento, avverrà comunque. A volte non ce ne rendiamo conto ma in realtà nessuno può “non cambiare”, perché accade spontaneamente e necessariamente: la vita è movimento, dalla cellula alla famiglia, dal nucleo alla società, tutto è in perenne movimento, più veloce o più lento, ma comunque in movimento.

Se pure io riescissi a “non fare niente” la mia paura nell’allontanarmi da casa comunque muterebbe nel tempo: o andrà peggio o andrà meglio, o scomparirà o perdurerà, e qualora sembrasse inalterata, nella forma e nella quantità, il tempo che passa (e ferisce colui che soffre) cambierebbe di certo il quadro nel quale essa si raffiguerebbe. E quella rabbia incontrollabile aumenterà per forza, o in qualche modo si stempererà. Un genitore per forza influirà sul proprio figlio, così come un educatore sul suo assistito. Posso allora decidere di darmi degli obiettivi e  impegnarmi sodo per poi verificare il cambiamento avvenuto. Allora la domanda che mi viene posta acquista un significato sia esistenziale sia pragmatico ed insieme, il suo latore ed io, ci lavoriamo.

Se invece il significato che si dà alla domanda sottende una sfiducia ed un annichilamento, una tendenza all’immobilismo ed una difficoltà ad assumersi la responsabilità di ciò che accade, allora baderemo attenti all’evolversi di questa stessa sfiducia, che necessariamente faremo cambiare in una delle due direzioni possibili: trovare serenità nella corrente del fiume o far nascere in noi la fiducia nel cambiamento possibile.

Il tondo ed il quadrato

Logo SPR.001Chi nasce tondo non muore quadrato, si dice, ed è vero. Ma costruitemi un cerchio perfetto, di qualsiasi materiale, e prendete ad usarlo in qualsiasi modo vogliate: nel tempo, proprio perché usato, esso modificherà necessariamente la sua forma e dove non c’era nessun lato vedremo comparire degli allungamenti della curva che somigliano ad un lato. E se costruite un quadrato, seppur di granito, a furia di tirarlo, spingerlo e maneggiarlo, vedrete nel tempo gli angoli smussarsi e quei sicuri lati dritti e spianati incresparsi e cominciare ad onduleggiare incerti.

Il cerchio, dinamico ma instabile, appiattendosi in qualche parte troverà proprio in quegli appiattimenti punti di equilibrio e di resistenza rispetto alle forze che lo spingono e troverà quindi meritato riposo; il quadrato, prima stagliato ed immobile, essendosi mosso per forza, avendo strusciato e ruzzolato più volte nella vita sarà diventato meno resistente al movimento, ed i suoi lati ora increspati lo renderanno infine meno statico. Il cerchio guardandosi allo specchio non potrà che vedere un cerchio, certo, ma diverso, cambiato. Ed il quadrato non vedrà certo una ruota, ma nemmeno più quegli angoli appuntiti e taglienti.

I sintomi, i problemi, sono il segnale che qualcosa in noi non funziona come dovrebbe e non riusciamo quindi a risolvere le situazioni conflittuali o annichilenti nelle quali ci imbattiamo. Sono il segnale che qualcosa va cambiato. Talvolta un aiuto specifico, veloce e mirato ci permette di sciogliere il nodo nel quale eravamo incappati. Altre volte invece bisogna rinforzare l’intera nostra persona, con un lavoro più lungo. In entrambi i casi comunque solo modificare sé stessi, nella direzione e nel modo giusto, offre la possibilità di risolvere i problemi e superare quindi i sintomi. Il cambiamento quindi comincia sempre da se stessi.

Cambiamento e trasformazioneNon possiamo quindi non cambiare, dicevo, la vita ci cambia comunque. Noi possiamo però decidere quale ruolo darci, tronco alla deriva o ammiraglia in cerca di nuove frontiere. Se impariamo quindi a modificare il nostro modo di essere e di fare diveniamo noi stessi di fatto “diversi”, cambiamo nella direzione desiderata, acquisendo nuove abilità e imparando a fare scelte diverse. Cambia il modo di sentire, di pensare, di stare in relazione, si evolvono i bisogni, si acuiscono le capacità. Da scelte differenti, poi, supportati da nuove abilità, discendono situazioni esterne ed interne diverse, e se la direzione è quella giusta, migliora la nostra condizione. Cambiando noi, in sostanza, dopo poco cambierà anche il mondo esterno, o almeno parte di quello con cui intratteniamo relazioni, proprio perché iniziamo a comportarci in maniera differente. Partiti allora da una domanda, espressione dei dubbi circa i cambiamenti possibili, scoraggiati magari dalle avversità, ci ritroviamo infine a saltare in un mondo diverso, migliore, più adatto ai nostri bisogni e ai nostri modi di essere.

Si cambia sempre quindi, e si impara a cambiare. Mi sembra questo un buon modo di rispondere alla domanda.