Tutti gli articoli di admin

Una buona occasione, anzi due…

Porta aperta su campagna

Settembre ed ottobre sono mesi caldi per la Psicologia italiana e per ogni persona che necessita di un aiuto psicologico!

Due distinte iniziative consentiranno di accedere gratuitamente al trattamento psicologico presso professionisti qualificati (tra cui il sottoscritto) e scelti direttamente dall’utente.

Si tratta del Bonus Psicologico (link al sito dell’INPS) e del progetto Vivere Meglio (link al portale). In breve similitudini e differenze.

Similitudini:

  • per entrambi si accede tramite un portale internet dedicato, dal quale si viene poi indirizzati al professionista di riferimento
  • sono totalmente gratuiti per l’utente, poiché a carico degli enti che li hanno predisposti
  • è tutelata la riservatezza dell’utente (privacy)

Differenze:

  • il Bonus Psicologico è un fondo utilizzabile liberamente dall’utente, per qualsiasi bisogno psicologico, disagio, sintomo o quadro clinico
  • il progetto Vivere Meglio riguarda in maniera specifica i disturbi ed il disagio collegati ad ansia e depressione, mentre esclude altri tipi di richieste o problematiche.
  • Vivere Meglio prevede un protocollo specifico di intervento focale breve, validato scientificamente, cui il professionista deve attenersi, e si conclude necessariamente in un tempo prestabilito (10-12 sedute)

La direzione emotiva

E28B1BCE-65C4-4C3F-99FF-E2606979A30C

La direzione emotiva.

Ovvero il valore delle emozioni.

L’Homo Sapiens è pieno di emozioni, è un fatto biologico, determinato dal codice genetico, che lascia poi all’interazione tra individuo (maturazione dell’organismo) e ambiente (sollecitazioni del contesto) il come, quando e quanto tale fatto debba realizzarsi. Sin dalla nascita proviamo emozioni, chi più chi meno, e del resto la stessa nascita presuppone che due persone abbiano provato emozioni tra loro. Proviamo emozioni  sempre: quando diamo il peggio di noi, così da non sembrare più tanto Sapiens, quando diamo il meglio che possiamo, meritando appieno il titolo di Homo. 

Le emozioni ci orientano nel mare delle relazioni e degli incontri che viviamo ogni giorno per garantirci il benessere o addirittura la sopravvivenza, sia quando la vita in gioco è quella biologica, fatta di tessuti e funzioni da preservare, che quella psicologica, fatta di esperienze, ambizioni e rapporti umani da coltivare. In entrambi i casi le emozioni ci aiutano a reagire in fretta, per  facilitare la vita. Così come ingerendo un cibo ne avvertiamo il sapore e valutiamo in fretta la bontà o la pericolosità, proseguendo a masticarlo o sputandolo, allo stesso modo appena entriamo in relazione con qualcosa o qualcuno abbiano una reazione emotiva, ovvero avvertiamo il valore che ha per noi (positivo o negativo per la sopravvivenza) e quindi reagiamo intraprendendo spontaneamente la direzione idonea (avvicinarsi o allontanarsi). Dall’incrocio di  queste due dimensioni fondamentali, valutazione (positiva/negativa) e direzione (avvicinarsi/allontanarsi), emergono le quattro emozioni fondamentali, dalle quali scaturiscono nel corso dello sviluppo tutte le altre, così come dai pochi colori di base, mescolando bene emergono infinite tonalità e sfumature di colori. 

Piano cartesiano delle emozioni

Piano cartesiano delle emozioni

Se riteniamo un’esperienza positiva, se ci fa bene, allora spontaneamente tendiamo ad essa, che sia una persona, un oggetto o un pensiero, per goderne e prolungare l’incontro: questa è la gioia, che spinge a unirsi, condividere, facilitare la vita. Ma se per motivi vari  dobbiamo invece allontanarcene, separarci, terminare l’incontro con cosa o chi per noi è vitale, nutriente, ecco che la tristezza ce lo segnala in un attimo e per molto tempo ancora: è la perdita,  che sprona a proteggere e conservare ciò che è importante. Sia gioia che tristezza ci informano dunque sull’importanza positiva che una cosa, persona, pensiero o situazione ha per il nostro benessere, e facilitano l’apprendimento e la memorizzazione di tutto ciò.

Ma se invece qualcosa ci minaccia? Se qualcosa o qualcuno è pericoloso per l’idea cha abbiamo di noi stessi o per la nostra vita biologica, che fare? Beh se appare troppo forte rispetto alle nostre capacità, conviene scappare, evitare, allontanarsi per proteggersi, ed ecco che la paura, con la sua scarica di adrenalina ed il cuore che accelera ci aiuta a correre via veloci, fuggire per salvare la vita. Invece se riteniamo di poterlo affrontare e sconfiggere, allora la rabbia ci dona la forza e la determinazione per combattere e “annientare” la minaccia, affrontare per affermare la nostra visione delle cose o la nostra vita. Che sia quindi la tigre che ci vuole mangiare o la persona che ci crea problemi, la paura e la rabbia ci guidano nel gestire il pericolo e nel valutare cosa fare, e ci aiutano a ricordarlo bene per le future evenienze.

Ogni emozione quindi ci segnala in maniera intuitiva, pre-verbale e pre-riflessiva il valore che diamo all’esperienza in atto (cos’è, com’è, che fare), e lo comunica anche agli altri membri della specie, così che possano interagire meglio con noi, in base a quello che stiamo provando. Ogni emozione inoltre sollecita a catena nell’altro le sue reazioni emotive. Anzi, limitatamente a quella parte di mondo emotivo che condividiamo con le altre specie, lo segnala pure a quegli animali che possono decifrare le nostre reazioni emotive.  Le emozioni quindi comunicano agli altri, oltre che a noi stessi, chi siamo, come stiamo e la direzione che intraprendiamo.

Le emozioni si stratificano e creano una “storia” dentro di noi. Così come il nostro corredo genetico è infatti la sintesi di millenni di evoluzione, e quindi in una singola vita ne racchiude migliaia di migliaia di precedenti, allo stesso modo la reazione emotiva di un momento è la sintesi di tutte le esperienze emotive che abbiamo compiuto nella nostra personale esistenza e condensa in un attimo tutto ciò che abbiamo vissuto, agito o subito, tutto ciò che sappiamo, che abbiamo imparato e in cui crediamo.

In quale modo poi le emozioni prendono forma da persona a persona, come e se si sviluppano in maniera sana e adeguata, quanto sono visibili o meno, quanto si è in grado di riconoscerle e capirle, quanto di modularle ed usarle in maniera complessa e articolata… questo non è dovuto ai cromosomi (se non in rari casi) ma alla vita che viviamo e all’interazione con le persone che incontriamo, soprattutto nell’età dello sviluppo. Questa è la parte che il nostro codice genetico lascia decisamente all’ambiente, che per l’Homo Sapiens è sia fisico che sociale, è la vita vissuta, con le persone e le situazioni incontrate. Ma questa è un’altra questione, da approfondire altrove magari, é il discorso sullo sviluppo emotivo.

Per il momento ci basti sapere e ricordare che ogni volta che proviamo un’emozione rispetto a qualcuno o qualcosa fuori (eventi, persone, interazioni) o dentro  (pensieri, fantasie, sensazioni, ricordi, ecc.) di noi, gli stiamo attribuendo un determinato valore personale, soggettivo ed importante. Le emozioni ci immettono così nella direzione che spontaneamente sentiamo di assumere, e per questo motivo vanno ascoltate e comprese.

Se poi la direzione intrapresa spontaneamente sia o meno veramente la migliore per noi, in un dato momento, ovvero la più vantaggiosa, bisogna fare ricorso ad un’altra risorsa che l’evoluzione ci ha offerto, la capacità di ragionare, di analizzare e riflettere, anche sulle proprie emozioni, e valutare se inibirle, seguirle, aumentarle o “trasformarle”. Ma anche questo è un altro discorso, quello sul pensiero che da forza al nostro agire e sulla capacità di modulare le emozioni, invece che scaricarle in presa diretta.

Il sapere emotivo ha bisogno della ragione per funzionare meglio ed essere veramente al servizio della vita, così come il sapere razionale ha bisogno delle emozioni per essere concreto, restare umano e condurre alla soddisfazione dei nostri bisogni e aspirazioni.

Per concludere con un motto che ci riporti, così come in apertura, alla nostra appartenenza di specie, potremmo dire che la parte Sapiens del nostro essere Homo è molto più emotiva, quindi, di quel che comunemente riteniamo.

 

La Rabbia (Video – La Rabbia e  Articolo)

La Tristezza

La Paura

La Gioia

Aiuto, mi sveglio paralizzato!!!

CE564D29-989B-4A4B-B0C4-DBB00A583F85Remo, così chiameremo questo giovane di circa vent’anni, mi scrive perché è spaventato e confuso, di recente si è svegliato per ben due volte con il lato destro del corpo (braccia e gambe) paralizzate e da allora vive in costante apprensione perché non capisce cosa gli stia accadendo. Ha effettuato le visite neurologiche del caso, con esito negativo, ed il neurologo ha suggerito alla sua famiglia di consultare uno psicologo, ritenendo probabile che il fenomeno sia dovuto a problemi emotivi. Mi specifica nella prima mail che non sa null’altro di quello che gli accade e che al neurologo e al medico di base non ha saputo fornire risposte ad alcune domande che riguardavano i suoi vissuti, le sue emozioni, il suo mondo interno. Per Remo queste paralisi vengono dal nulla, sono una interruzione brusca e violenta nel suo normale fluire quotidiano.

La consulenza è durata in tutto sette contatti, di cui la maggior parte via mail e due in videochiamata nella fase centrale del lavoro. Alla fine del percorso di consulenza Remo ha acconsentito che la sua esperienza venisse qui raccontata, proteggendo ovviamente ogni dato che lo potesse identificare. Su richiesta ha fornito al sottoscritto un disegno (test carta e matita), ha compilato un questionario sui sintomi ed un’intervista semistrutturata sul profilo di personalità, tutto via mail.

Esplorazione del problema e profilo di personalità.

Le prime interazioni via mail hanno  avuto lo scopo di esplorare insieme a Remo le caratteristiche di queste paralisi, i fattori scatenanti e le circostanze emotive e relazionali nelle quali si sono verificate. Il consulente forniva a Remo una serie di domande mirate, alle quali il giovane doveva rispondere liberamente. Dall’insieme di queste interazione e dall’interpretazione dei test somministrati il consulente ha potuto effettuare varie ipotesi, da controllare nelle successive interazioni.

Colpisce di Remo una seria difficoltà a usare le parole per descrivere la sua vita emotiva, che pure si presenta all’inchiesta viva e forte, fatta anzi di impulsi e comportamenti non ben modulati a volte, cosa che da piccolo gli ha creato seri problemi a scuola. Remo ha tanta energia e reagisce immediatamente agli stimoli ma non ha parole e pensieri per descrivere, contenere e capire ciò che gli accade. Sia le risposte libere alle domande, sia i test somministrati vanno in questa direzione. Quindi alle richieste dirette di raccontare i propri vissuti egli non sa rispondere, e questo è il motivo dei silenzi dinanzi ai medici che ha incontrato o con la madre che cercava giustamente di capire cosa accadesse. Ma se lo si fa parlare della sua giornata, come in una cronaca, emergono tumulti emotivi e reazioni impulsive degne di un romanzo di fine ottocento. Remo non è alessitimico (severa difficoltà a comprendere e descrivere le proprie emozioni, con un associato grado di atonia emotiva) è semplicemente non alfabetizzato a riflettere sulle emozioni e sulle relazioni in cui è immerso. Vive tutto in presa diretta. Questo tratto appartiene anche alla sua famiglia, composta di una madre separata ed un fratello maggiore di tre anni. Dal suo racconto il consulente riesce a far emergere due circostanze importanti: la prima è lavorativa, Remo sta avendo problemi col suo collega di rango superiore, che per alleggerirsi approfitta della sua situazione di comando per far lavorare più del dovuto il giovane. Remo lavora come scaricatore di camion insieme al conducente, che però è anche referente e responsabile delle consegne per la ditta che li fa lavorare, ed inoltre ha anche un contratto a tempo indeterminato e lavora da anni, mentre Remo è in contratto formazione, con scadenza a dieci mesi e rivalutazione a termine della sua condizione. Remo è arrabbiato col collega per i soprusi e per i brutti modi ed è spaventato di poter perdere il posto, anche perché ha già cominciato ad agire impulsivamente qualche volta, passando dalla parte del torto e concedendo al più smaliziato e navigato nemico/collega frecce al suo arco, se vuole, rispetto all’azienda. Remo si sta avvitando in una situazione in cui la sua impulsività potrebbe fargli perdere il lavoro, e sta accumulando rabbia e paura, che cominciano a cedere. Remo ha solo due modalità di gestione delle emozioni problematiche: o la scarica diretta e impulsiva, o la repressione totale.

La seconda circostanza degna di essere sottolineata riguarda invece la famiglia: la madre è una persona molto ansiosa, con la quale Remo intrattiene ancora un rapporto di non completa separazione ed autonomia emotiva. Quando per la prima volta Remo si è svegliato con il lato destro bloccato, la madre si è spaventata più del figlio e si è agitata a tal punto che per molti minuti si è assistito a scene intense e drammatiche e solo il fratello maggiore ad un certo punto ha saputo portare tutti al pronto soccorso. Ai colloqui coi medici spesso i figli hanno dovuto prendersi cura della madre e non viceversa come dovrebbe essere. Il secondo episodio è stato quindi ancora più intenso e drammatico del primo ed inoltre ha posto Remo, che già non sa usare tanto le parole per descrivere gli avvenimenti, in condizione di non chiedere troppo ne approfondire troppo coi medici. Ecco perché ha richiesto una consulenza in linea su internet e non dal vivo; non sapeva come altro fare per chiedere aiuto e informazioni senza allertare o coinvolgere direttamente la madre, che deve poi gestire invece di concentrarsi su di sé. Quanto fin qui esposto è il frutto del lavoro di consulenza, che ha saputo tirar fuori, organizzare e narrare ciò che Remo da solo non sapeva vedere e definire, eppure c’era. Questa restituzione lo ha aiutato molto, perché gli ha permesso di vedere un senso chiaro e definito lì dove esperiva solo cose incomprensibili. Pur non avendo ancora risolto il problema, almeno cominciava a intravedere una cornice che legava il suo sintomo al resto della sua vita e al momento difficile che stava attraversando.

Dietro al sintomo, il problema.

Chiedo più volte a Remo di ricordare se avesse fatto qualche sogno le notti degli episodi di paralisi, ma Remo non ne ricorda nemmeno in generale. Lui dice che non sogna. Gli spiego che anche se non siamo risusciti a far emergere alcun sogno l’ipotesi più logica che posso prospettargli è la seguente. Lui è un giovane che non sa gestire bene le emozioni che gli capitano con le persone, soprattutto quelle problematiche, eppure è una persona ricca di emozioni e di obiettivi, inoltre sa prendersi cura della madre ed è molto responsabile per l’età che ha; lavora e vuole guadagnare per aiutare la famiglia e per costruirsi un futuro, cerca di comportarsi bene con tutti, anche con la sua ragazza ed i suoi familiari. Quando però c’è un problema nella relazione con un’altra persona, non sa come fare e reprime la sua rabbia o la paura; questa però si accumula ed ad un certo punto lo spinge ad agire impulsivamente e a sbagliare, come successo in alcuni degli episodi sia lavorativi che privati che nella sua “cronaca” mi ha raccontato e come gli accadeva già da bambino. In questo periodo la forte tensione sul lavoro lo sta mandando spesso sotto stress e sta accumulando rabbia (verso il collega) e paura (di sbagliar e perder il lavoro), e già qualche volta ha perso il controllo. A tutto ciò lui reagisce, nel tentatvo di controllarsi, con ulteriore repressione: reprime la rabbia e la paura, e cerca di distrarsi come può. Ma a questo punto, gli spiego, i suoi pensieri continuano necessariamente a tornare sul problema, ed assieme ai pensieri ritornano le emozioni relative. Probabilmente fa molti sogni agitati in cui prova rabbia e paura (la madre gli dice che si move molto nel sonno e sembra agitato, anche se poi lui al risveglio non ricorda nulla), forse vorrebbe reagire o colpire (lato destro del corpo, il giovane è destrorso e mi ha confidato che spesso durante le ‘arrabbiature’ sul lavoro gli viene la fantasia di picchiare a calci e pugni il collega) ma deve anche bloccarsi e reprimersi per non fare un guaio. Probabilmente nei due episodi occorsi l’agitazione del sogno è salita troppo e si è risvegliato con “nel corpo” ancora la paura, la rabbia e l’autoimposizione di bloccare il corpo per non aggredire. A questo punto però, da sveglio, si è ritrovato in una scena agitata che ha fatto sparire la componente di rabbia e ha esaltato quella di paura: da un lato ha visto la madre agitarsi, strillare e andare in tilt, dall’altro non riusciva a muovere il lato destro del corpo ed è andato nel panico, non capendo cosa stesse accadendo e non potendo ricordare i contenuti del sogno che gli avrebbero permesso di ricollegare braccia e gamba all’azione vissuta e inibita nel sogno. Quando è andato dal neurologo non sapeva tutto ciò e non poteva quindi spiegarlo; questo ha confermato in lui e nella madre il timore che si trattasse di un fatto organico, anche di fronte al parere del neurologo e alle indagini oggettive negative.

Conclusioni e verifica.

Spiego a Remo che a questo punto l’ipotesi che le paralisi siano dovute a fattori psicologici è molto plausibile, sia perché le indagini neurologiche non hanno evidenziato problemi organici, sia perché il suo profilo di personalità e la situazione di stress in cui si trova sono tali da consentire un sintomo del genere. Una prima indicazione quindi che discende da questa analisi è che Remo deve prendere atto che non sa ancora gestire le sue emozioni come si dovrebbe e che inoltre non sa capire e descrivere il suo mondo interno, i suoi vissuti, le sue emozioni, quindi non sa di conseguenza nemmeno definire bene con se stesso e con l’altro qual è il problema che lo attanaglia. Inoltre ha solo due modalità di modulazione delle emozioni: la scarica diretta e la repressione, e sono troppo poco per la sua età e per le esigenze della vita personale e lavorativa. Il suo collega e la situazione lavorativa vanno sicuramente in qualche modo affrontate e gestite ma in maniere che lui ancora non sa immaginare e attuare, e non può continuare solo a reprimersi, per poi scattare all’improvviso. Ha quindi tre aree di lavoro psicologico da affrontare: capire le proprie emozioni e le relazioni umane all’interno delle quali si verificano, imparare a parlarne e a rifletterci, costruire strategie di modulazione delle emozioni e di intervento più avanzate e funzionali. La paralisi è quindi un sintomo che si spiega in tale contesto psicologico e che tra l’altro non è ciò che più lo deve preoccupare. L’importante è ciò che viene prima e che ha causato questo sintomo: da un lato il problema sul lavoro, dall’altro le sue carenze psicologiche. Gli spiego inoltre che il fatto che comprenda bene tutto ciò quando glie lo spiego e che sappia farmi domande adeguate quando ne parliamo è per me un buon indicatore prognostico, che significa che può imparare molto ed in un tempo ragionevolmente breve. C’è bisogno però che si faccia seguire da uno psicologo e siccome la distanza territoriale che ci separa è troppa, deve rivolgersi ai servizi di zona (che lo aiuto a reperire). Vorrei però che di tanto in tanto mi aggiornasse della situazione.

A distanza di qualche settimana Remo mi scrive per dirmi che tutto quel che è venuto fuori dalla consulenza lo ritiene ancora vero e lo ha capito proprio bene, e che ha prenotato un incontro con uno psicologo del suo territorio. Mi chiede di essere accompagnato in questa fase, cosa che avviene con successo. A distanza di 6 e poi 12 mesi ci risentiamo e sono lieto di riscontrare notevoli migliorie, non solo perché le paralisi non si sono più presentate e al loro posto stanno emergendo i sogni, ma anche perché da come mi parla si vede che sta imparando molto con il collega sui tre punti definiti alla fine della consulenza. Sul lavoro le cose vanno meglio, anche se il collega è ancora un “problema” da gestire, ma va molto meglio. Mi ringrazia ancora e mi promette che mi farà sempre grande pubblicità, io lo ringrazio per il suo entusiasmo e gli ricordo che la porta, o meglio la mail, è sempre aperta.

L’emergenza e questa strana clausura.

EmozioniL’attuale emergenza legata al Coronavirus ci costringe ad una strana clausura, in contatto digitale con tutti, se vogliamo, ma distanti da tutte le nostre abitudini. Passato l’ineludibile  stupore iniziale siamo adesso immersi in un osservatorio unico e per certi versi privilegiato sulle nostre abitudini. Le cose importanti che quotidianamente diamo per scontate  adesso ci mancano e la loro assenza, sebbene possa provocar danni, potrebbe anche spingerci a riflettere con maggiore acutezza. La così tanto ovvia quotidianità, quasi mai oggetto di riflessione, adesso, da assente, esige di essere compresa.

Molti dei miei pazienti sono in questi giorni confusi ed hanno reazione emotive che non si aspettavano, nel bene e nel male. Anche io ovviamente sono a volte disorientato da ciò che accade fuori e dentro di me. Alcuni dei miei pazienti però stanno sperimentando difficoltà più severe poiché hanno perduto una quotidianità che li conteneva emotivamente; sono persone che hanno ancora bisogno di molto contenimento “esterno” per poter vivere, sopravvivere, godere, costruire la propria esistenza.

Vorrei portare due brevi esempi. Il primo, una madre ed un bimbo di 9 anni, che chiameremo Antonio, con Sindrome dello Spettro Autistico, con cui lavoro da circa due anni. Bambino ad alto funzionamento, ma con un tratto iperattivo e oppositivo-reattivo che gli fa assumere di fronte alle frustrazioni comportamenti problematici e crisi agitative. Senza entrare nei dettagli del progetto riabilitativo e terapeutico, che vede coinvolti sia il bambino sia la madre, sia la famiglia, sia la scuola, posso affermare che nell’ultimo anno abbiamo raggiunto buoni risultati anche sull’aspetto strettamente comportamentale, ed una delle cose cha ha funzionato è stato l’inserimento guidato in contesti relazionali adeguati, attraverso una madre che ogni volta si prepara meglio a gestire il proprio figlio: la scuola (con la quale si è lavorato bene per integrare e facilitare il bambino rispetto alle sue difficoltà), lo sport, il gruppo del catechismo, il centro di riabilitazione. Adesso però Antonio e la madre sono chiusi in casa, non c’è la scuola, non c’è lo sport, non c’è il catechismo, il centro di riabilitazione é chiuso. Antonio sta regredendo velocemente, ritornando alle stereotipie ed ai comportamenti agitati del passato, imbrigliato in tablet, computer e televisori; la madre mi chiama disperata, non sa come fare, aveva imparato molto dalla terapia ma adesso che stanno chiusi in casa per tutto il giorno, le sane routine sono saltate e lei è sommersa da ciò che non sa gestire, è senza strumenti, è sola e teme giustamente di perdere in poche settimane due anni di prezioso e faticoso lavoro. Perché non scherziamo su questo e non prendiamoci in giro, per una madre di un figlio nello Spettro Autistico fare la madre è più difficile che per altre madri, e stare chiusi in casa in questo periodo di emergenza è più problematico e più gravido di conseguenze che per altre persone. Antonio e la madre hanno perso una struttura esterna (la quotidianità fatta di giornate organizzate ad hoc in posti in cui stare, persone da incontrare e attività specifiche da svolgere) che é altamente necessaria per offrire contenimento emotivo e comportamentale per entrambi. É importante capire che per loro non sono “solo” sospesi temporaneamente gli obiettivi di riabilitazione e crescita, per loro é saltato proprio tutto!

Secondo esempio, un altro paziente, uomo di oltre cinquant’anni, con una relazione coniugale problematica, un figlio grande col quale purtroppo il rapporto non ha mai funzionato tanto bene,  patologie pregresse, un rene in meno  e chemioterapici in atto, gravemente immunodepresso.  Lui è una di quelle persone che NON DEVE ASSOLUTAMENTE PRENDERE IL VIRUS. Una persona che ha riversato nel lavoro e nei contatti sociali quotidiani che ruotano attorno alla giornata lavorativa in ufficio, tutta la sua essenza vitale e tutta la densità relazionale di cui è capace. Adesso anche lui è disorientato, più spaventato di me e di molti altri poiché rischia davvero la vita ed ha perso la sua quotidianità “fuori casa”, il miglior antidepressivo che lo potesse mai curare finora. Ora è chiuso in casa con la sua famiglia che non è per lui fonte di benessere quanto luogo emotivamente problematico in cui districarsi, piuttosto che immergersi. Si, per fortuna c’è il lavoro agile da casa col computer e c’é il telefonino con dentro Whatsapp, Facebook e via dicendo, quindi la socialità “esterna alla famiglia” sopravvive in qualche modo per lui. Ma oltre la porta chiusa della stanza in cui per molte ore si rifugia, ci sono moglie e figlio, e la pressante vita familiare che non può essere più elusa con la solita apnea del week-end. Ed inoltre si stanno presentando violente crisi d’ansia, perché proprio la  vita “social” del telefonino lo bombarda ogni giorno di stimoli allarmanti che non dovrebbe recepire, perché la paura  di fronte a tali stimoli sale troppo per chi è immunodepresso e seriamente vulnerabile a questo virus.

Che si fa adesso??? Bisogna urgentemente riorganizzare la quotidianità, adattarsi attivamente, creare nuove abitudini, gestire le emozioni che arrivano amplificate e le relazioni familiari che possono essere problematiche o comunque difficili. Le videochiamate ci stanno aiutando, riusciamo a lavorare, seppur a distanza e senza la relazione fisica, che in un intervento psicologico è culla e strumento di intervento. Ma possiamo fare cose buone e traghettarci in questa fase di emergenza fino alla ripresa della normalità, cercano di non perdere troppo terreno nel frattempo. Queste persone hanno bisogno di un aiuto per adattarsi ad una situazione che gli ha tolto la struttura esterna che li conteneva e li faceva “funzionare”: la quotidianità fatta di luoghi, di incontri, di attività, di distrazioni (più o meno sane) dalle relazioni familiari difficili.

E allora, da questo osservatorio unico e privilegiato della strana odierna clausura cosa possiamo guardare? Che ciascuno di noi si appoggia alla propria quotidianità per darsi struttura, per regolare le proprie emozioni ed i propri conflitti interni, le proprie difficoltà e per puntare su ciò che lo fa vibrare e lo fa funzionare al meglio. Ma la stessa quotidianità che ci mostra cosa normalmente desideriamo e perseguiamo ci indica anche, se vogliamo vederlo, ciò da cui fuggiamo, le relazioni umane ed i comportamenti per noi difficili e problematici, quelli che ci spaventano o infastidiscono. Perché la quotidianità non è fatta solo dei luoghi in cui andiamo e delle persone che frequentiamo ma anche dei luoghi, delle persone e delle azioni che stabilmente evitiamo. Adesso questo diaframma contro ciò che stabilmente evitiamo potrebbe essere saltato e la sentinella che ci avvisa di ciò  sono le reazioni emotive “fastidiose” che in questa strana clausura si possono presentare. L’intensità di questo “fastidio” è inversamente proporzionale alla nostra maturazione psicologica, che porta con se anche una certa autonomia (o meglio una sana ed elastica dipendenza) dai contesti esterni e la capacità avanzata di riorganizzarci velocemente quanto le condizioni cambiano. Per la madre di Antonio e per il nostro cinquantenne le reazioni emotive di questi giorni sono forti, intense, e rischiano di instaurare un corto circuito in se stessi e nella famiglia in cui abitano; da soli non le riescono a gestire e per fortuna possono contare su un aiuto esterno. Le persone che hanno  ancora bisogno di un contenimento  esterno soffrono di più adesso, quelle che stanno “psicologicamente più avanti” soffrono di meno e si riadattano più agilmente. La sentinella può avere facce diverse per ognuno di noi ma per ciascuno una domanda vale: cosa voglio farne adesso delle cose che stabilmente evito? Questa clausura mi può aiutare a vederle chiaramente? Voglio cambiare qualcosa o è meglio che le tenga solo a bada per traghettarmi sino alla fine dell’emergenza?

Sia per cambiare (almeno un po’) sia per gestire al meglio le cose per noi problematiche e resistere fino alla fine del tunnel, bisogna saper ascoltare le emozioni di paura o di rabbia, di sconcerto e di tristezza, allertate dalla perdita della quotidianità, dall’obbligo di confrontarsi con ciò che di solito si evita, e cercare di cogliere il messaggio, cercare di capire cosa di solito evitiamo e perché ci crea così tanti problemi.

E se vogliamo, se ci dedichiamo anche a ciò che viene da dentro, andrà tutto bene…

 

La consulenza in linea, esiste?

Le nuove tecnologie aprono nuove possibilità. È avvenuto in passato con la carta stampata, con la radio e la televisione, accade oggi con “la Rete”. Gli psicologi hanno presenziato la prima, firmando articoli e rubriche; hanno abitato le seconde, sforzandosi di adattarsi a tempi stretti e inquadrature;  colonizzano oggi la terza, con siti, applicazioni e presenze nei social network. Ma come rispondere alle attese dei visitatori?

consulenza inlineaUna cosa, ad esempio, è parlare della bulimia, della fobia sociale  o dell’emergenza per diffondere le conoscenze disponibili o per sensibilizzare la popolazione, ed altra cosa è effettuare una consulenza psicologica ad una persona che soffre dell’una o dell’altra. Tra informazione e consulenza esiste una buona e sana linea di demarcazione. Nel primo caso l’obiettivo è esporre in maniera condivisibile l’argomento, affinché se ne abbia un’idea sufficientemente chiara. Nel secondo caso invece è del tutto inutile dissertare sull’argomento se non si trovano soluzioni o non si danno indicazioni utili per aiutare il richiedente, e si è inoltre vincolati alla verifica dei risultati. Nel primo caso bastano poche informazioni come punto di partenza per esporre la tematica, quindi una telefonata in diretta, una lettera alla redazione o un form su di un sito possono andare bene. Nel secondo caso non si può proporre niente se non dopo aver conosciuto bene la situazione specifica e la persona che la vive, senza cioè un lavoro attivo da ambo le parti (consulente e richiedente); si esige quindi un minimo di interazione, di continuità nel lavoro e tutta una serie di informazioni non verbali e relazionali che si possono cogliere solo nel rapporto interattivo col richiedente. Qui TV, radio e carta stampata risultano inadeguati allo scopo per via dei loro tempi, dei loro modi, dei loro obiettivi; Internet invece… dipende.

Si possono effettuare secondo me “consulenze in linea” e cioè rispondere alla domanda di una persona specifica, lontana e da conoscere, con un suo personale bisogno, prendendosi però il tempo che serve, interagendo online quel tanto che basta e con gli strumenti che la rete offre. L’importante è che sia richiedente che consulente abbiano ben chiara la distinzione tra informazione e consulenza, che hanno obiettivi, caratteristiche e livelli di approfondimento differenti.  Se è una consulenza infatti la risposta non può scaturire dalla semplice domanda iniziale ma da alcuni scambi di approfondimento e da una costruzione condivisa della definizione del problema, delle alternative di scelta possibili e della verifica dei risultati ottenuti.

Considerato infine che la consulenza online viene offerta di solito gratuitamente, può essere un’utile risorsa per chi avverte un bisogno psicologico da esplorare ma ancora non si sente sicuro o pronto per rivolgersi personalmente ad uno psicologo.

Leggi alcune consulenze…

cambiamento-crisalide-farfalla-

Il cambiamento e le sue forme 

  Una persona può realmente cambiare? E può cambiare le condizioni attorno a sé, soprattutto quelle avverse? Molte persone che si rivolgono allo psicologo si pongono tale domanda. Capita in tutti gli ambiti applicativi della psicologia: nella clinica, nell’educazione, nello sport, in ambito giuridico, nella riabilitazione, nel contesto del lavoro e così via.

  Che si lavori su aspetti periferici della personalità, come l’acquisizione di nuove competenze, o che si tenti di cambiare aspetti strutturanti e di vecchia data di sé stessi, come atteggiamenti, modi di pensare e abitudini, che si lavori sulla singola persona, sulla coppia, sulla famiglia, sui gruppi o che si supervisioni un collega in difficoltà, la domanda resta e deve restare, perché è la domanda che alimenta la ricerca. Bisogna focalizzarlo bene: il rapporto che sappiamo intrattenere con la domanda e con la ricerca è ciò che predispone in realtà a trovare la risposta. Può sembrare un po’ sibillino, ma adesso sarò più chiaro.

Alcuni frammenti di vite vissute

Io posso cambiare? Ho trent’anni, ho quarant’anni… e non riesco ad allontanarmi da casa, io posso cambiare? Io invece non controllo la mia rabbia, appena ventenne ed ho già perso la fidanzata ed anche il lavoro per questo… io posso cambiare? Ed io, che non me ne accorgo nemmeno di quanto sono impulsiva, io posso cambiare? E quel cibo che non riesco nemmeno a guardare, può cambiare per me? Ed io pure, io che da poco sto capendo quanto di quello che accade a mio figlio dipenda dai miei cattivi atteggiamenti, io posso cambiare? e se cambio io, mio figlio starà meglio? E noi, noi che lavoriamo nella scuola, noi che lavoriamo nella terapia con bimbi piccoli, noi che affianchiamo i disabili, noi possiamo cambiare nonostante la scuola ed i centri sanitari restino gli stessi e ci impediscano di lavorare al meglio? i nostri assistiti staranno meglio anche se le loro famiglie non collaborano quanto dovrebbero? Ed io che abito da assente un corpo vuoto, io posso cominciare a sentire qualcosa? La gioia, forse? Ed io che ho raggiunto tutto eppure non trovo mai pace, io potrò acquietarmi un giorno?

L’importanza di tali domande

Solo il pronunciare queste domande mette angoscia, irrompe la paura ed un misto di irrequietezza e di senso di impossibilità. Il dubbio inoltre, se non sciolto, logora e può cedere il passo allo scoraggiamento. Certo la stessa domanda assume significati diversi a seconda della situazione e della storia della persona che vi ci piomba dentro, ed inoltre il carattere di ciascuno dà un taglio del tutto particolare alla questione. Ed anche io che aiuto ciascuno a “costruire” la sua risposta, certo non ritengo sia l’unica possibile al quesito ed alla sofferenza che dietro di esso si para. Ma nonostante tutti i “se” ed i “ma”, le persone si chiedono questo ed hanno profonda ragione di farlo. Nessuna domanda è inutile, non tutte le domande però sono ugualmente importanti, questa decisamente lo è. E non solo perché vi riponiamo dentro le nostre speranze, le nostre paure, i nostri dolori, le nostre energie emotive ed economiche. Certe domande solo per averle poste generano un orizzonte di senso nel quale poi bisogna imparare a muoversi.

Una riflessione, ben più che una risposta

Io ritengo che il cambiamento sia non solo possibile ma addirittura ineluttabile. Sempre. Ciò che varia è la natura di esso, la sua direzione e la sua quantità ma esso, il cambiamento, avverrà comunque. A volte non ce ne rendiamo conto ma in realtà nessuno può “non cambiare”, perché accade spontaneamente e necessariamente: la vita è movimento, dalla cellula alla famiglia, dal nucleo alla società, tutto è in perenne movimento, più veloce o più lento, ma comunque in movimento.

Se pure io riescissi a “non fare niente” la mia paura nell’allontanarmi da casa comunque muterebbe nel tempo: o andrà peggio o andrà meglio, o scomparirà o perdurerà, e qualora sembrasse inalterata, nella forma e nella quantità, il tempo che passa (e ferisce colui che soffre) cambierebbe di certo il quadro nel quale essa si raffiguerebbe. E quella rabbia incontrollabile aumenterà per forza, o in qualche modo si stempererà. Un genitore per forza influirà sul proprio figlio, così come un educatore sul suo assistito. Posso allora decidere di darmi degli obiettivi e  impegnarmi sodo per poi verificare il cambiamento avvenuto. Allora la domanda che mi viene posta acquista un significato sia esistenziale sia pragmatico ed insieme, il suo latore ed io, ci lavoriamo.

Se invece il significato che si dà alla domanda sottende una sfiducia ed un annichilamento, una tendenza all’immobilismo ed una difficoltà ad assumersi la responsabilità di ciò che accade, allora baderemo attenti all’evolversi di questa stessa sfiducia, che necessariamente faremo cambiare in una delle due direzioni possibili: trovare serenità nella corrente del fiume o far nascere in noi la fiducia nel cambiamento possibile.

Il tondo ed il quadrato

Logo SPR.001Chi nasce tondo non muore quadrato, si dice, ed è vero. Ma costruitemi un cerchio perfetto, di qualsiasi materiale, e prendete ad usarlo in qualsiasi modo vogliate: nel tempo, proprio perché usato, esso modificherà necessariamente la sua forma e dove non c’era nessun lato vedremo comparire degli allungamenti della curva che somigliano ad un lato. E se costruite un quadrato, seppur di granito, a furia di tirarlo, spingerlo e maneggiarlo, vedrete nel tempo gli angoli smussarsi e quei sicuri lati dritti e spianati incresparsi e cominciare ad onduleggiare incerti.

Il cerchio, dinamico ma instabile, appiattendosi in qualche parte troverà proprio in quegli appiattimenti punti di equilibrio e di resistenza rispetto alle forze che lo spingono e troverà quindi meritato riposo; il quadrato, prima stagliato ed immobile, essendosi mosso per forza, avendo strusciato e ruzzolato più volte nella vita sarà diventato meno resistente al movimento, ed i suoi lati ora increspati lo renderanno infine meno statico. Il cerchio guardandosi allo specchio non potrà che vedere un cerchio, certo, ma diverso, cambiato. Ed il quadrato non vedrà certo una ruota, ma nemmeno più quegli angoli appuntiti e taglienti.

I sintomi, i problemi, sono il segnale che qualcosa in noi non funziona come dovrebbe e non riusciamo quindi a risolvere le situazioni conflittuali o annichilenti nelle quali ci imbattiamo. Sono il segnale che qualcosa va cambiato. Talvolta un aiuto specifico, veloce e mirato ci permette di sciogliere il nodo nel quale eravamo incappati. Altre volte invece bisogna rinforzare l’intera nostra persona, con un lavoro più lungo. In entrambi i casi comunque solo modificare sé stessi, nella direzione e nel modo giusto, offre la possibilità di risolvere i problemi e superare quindi i sintomi. Il cambiamento quindi comincia sempre da se stessi.

Cambiamento e trasformazioneNon possiamo quindi non cambiare, dicevo, la vita ci cambia comunque. Noi possiamo però decidere quale ruolo darci, tronco alla deriva o ammiraglia in cerca di nuove frontiere. Se impariamo quindi a modificare il nostro modo di essere e di fare diveniamo noi stessi di fatto “diversi”, cambiamo nella direzione desiderata, acquisendo nuove abilità e imparando a fare scelte diverse. Cambia il modo di sentire, di pensare, di stare in relazione, si evolvono i bisogni, si acuiscono le capacità. Da scelte differenti, poi, supportati da nuove abilità, discendono situazioni esterne ed interne diverse, e se la direzione è quella giusta, migliora la nostra condizione. Cambiando noi, in sostanza, dopo poco cambierà anche il mondo esterno, o almeno parte di quello con cui intratteniamo relazioni, proprio perché iniziamo a comportarci in maniera differente. Partiti allora da una domanda, espressione dei dubbi circa i cambiamenti possibili, scoraggiati magari dalle avversità, ci ritroviamo infine a saltare in un mondo diverso, migliore, più adatto ai nostri bisogni e ai nostri modi di essere.

Si cambia sempre quindi, e si impara a cambiare. Mi sembra questo un buon modo di rispondere alla domanda.